I momenti di solitudine fanno crescere, probabilmente. Soprattutto se si tratta di solitudine non scelta. E la malattia questi momenti ce li ha nel DNA.
Quando ti fermi e guardi avanti per pensare a quale strategia devi adottare per uscirne, e la tua sosta viene letta in un’altra lingua e il tuo sguardo interpretato in un’altra lingua.
Quando devi scegliere la soluzione migliore per stare bene e i tuoi movimenti agli occhi degli altri non sono che passi maldestri.
Ti trovi a nuotare in una piscina, senza riflessi di luce sul fondo né linee di direzione sul soffitto.
E quando dopo mille anni i momenti di solitudine ti sembrano indolori, ti basta vedere una bambina dagli occhi grandi di cerbiatta piangere in preda alla glicemia alta, di fronte al divieto di mangiare un dolce. E senti l’ingiustizia di lacrime salate di fronte alla cosa più semplice del mondo.
E capisci che ti capiterà ancora mille volte nella vita di dover affrontare l’acqua senza riflessi di luce sul fondo.
