Domani, di un anno fa.

Ricordo perfettamente l’oggi di un anno fa. E’ stato l’ultimo giorno della mia vecchia vita.
La solita sveglia alle 5.45, colazione, un po’ di faccende e poi via a svegliare la mia principessa, così magra e cosi stanca. Come ogni mattina colazione con 330 ml di latte e nesquik fatto in casa e poi di corsa dalla nonna (l’asilo era gia chiuso) ed io filavo in ufficio.
Quel giorno faceva freddo. Non sapevo che alle 12.05 sarebbe stata l’ultima volta che chiudevo a chiave quella porta, quel luogo che per me era una seconda casa e in cui passavo le mattine da 15 anni. E poi…. di nuovo via di corsa a prender giulia e tornare a casa e lei che aveva ancora fame e ripranzava con me, e i miei pensieri sempre  come un martello.
Ero paranoica. Mi dicevano, “è magra di costituzione”, “è stanca perché non sta mai ferma”.
Quel pomeriggio ho invasato un sacco di cipolline e lei beveva, quanta sete, ma “fa caldo, le fa bene bere”. Sei paranoica. E intanto dentro di me volevo esserlo ma non riuscivo a scacciare QUEL pensiero.
A cena ha mangiato come un lupo, e poco dopo aveva ancora fame, era stanca, assetata, sempre più magra ed io rimanevo paranoica, ma ho fatto quella telefonata “M., per favore domani mattina puoi venire a fare una glicemia a Giulia?”.
Il domani, di un anno fa, smisi di essere paranoica e cominciò la nostra nuova vita.

Katia, T3

Diabete e bambino. Cosa succede quando mangiamo? La vera storia del cibo dalla bocca agli zuccheri, grazie al lavoro di Fata Insulina.

Da Padre a padre, dico grazie all'autore per aver fatto sorridere la mia bambina. Ci ha relagato uno sprazzo di magia

Ho pianto nel vedere la mia bimba felice  di leggere di una bimba come lei
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Questione di posto

Due ragazze dentro un treno. Posti paralleli, opposti. Stesso sacchetto un po’ unto con pizzette dentro, dello stesso bar. Stessa voglia di mangiare, nello stesso istante.
L’una prende il sacchetto, lo apre e comincia a mangiare.
L’altra: prende borsellino con glucometro,si misura, scopre un 130, si auto-complimenta mentalmente per aver pensato a fare un po’ di u di correzione prima di prendere il suddetto treno,così che ora non deve aspettare ore per mangiare… Poi mette a posto, quindi cerca disperatamente tra i meandri della borsa la penna d’insulina, non la trova, brontolano sia stomaco che mente, ecchec@zzo dov’e’?, ok, trovata, sbottona cappotto (cheppalle, pensa), decide bolo, fa iniezione, ripone l’insulina nei meandri della borsa.
Aspetta un po’ mentre scrive questo stato per far sì che l’insulina cominci ad arrivare e la pizza non faccia troppi danni.

Passato un quarto d’ora o anche più, l’una, ragazza dentro il treno con stessa voglia di mangiare e stessa pizza, ha finito da un pezzo, l’altra, inizia ora.

Peccato che io sia la ragazza dalla parte opposta sbagliata, ma con stesso sacchetto, stessa voglia, stessa pizza.

Questione di posti?

Silvia

 

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“Io non sono il mio diabete”

Sono una mamma, ma non ho figli diabetici. Lo sono io da 25 anni, esordio a 19 anni nel ’90. Non era “preistoria” e nemmeno “medioevo”, ma parlando in termini di diabete, i tempi erano da considerare tali.

A livello tecnologico questi sono anni “d’oro” per un diabetico insulinodipendente. Non c’è paragone: microinfusori, penne, sensori, insuline sempre più sofisticate. La dieta poi… Un diabetico ora può mangiare di tutto, ovviamente con attenzione, ma non ci sono divieti imposti a prescindere.
La vita, per chi è diabetico insulinodipendente, è davvero migliorata. Forse quello che ancora manca è quell’attenzione, quella sensibilità nei confronti della sfera emotiva, di quel mondo sommerso e spesso taciuto.

La cronicità spesso è proprio questo, una dimensione sconosciuta ai più, riservata a pochi (per fortuna), una dimensione “intima”, spesso fatta di lotte interiori, di diversità e conflitti.
Si parla di malattia, di accettazione, convivenza, rispetto, di un corpo che fuori appare “sano”, ma dentro qualcosa si è rotto e non si può aggiustare…
In questo stato, per forza di cose, si è portati ad odiare quello che si ha, è normale, sarebbe anomalo il contrario.

Dire “odio il diabete” è una dichiarazione d’amore verso noi stessi, è un rifiuto certo, ma è anche un modo per dire, urlare la rabbia verso qualcosa che non ci appartiene, o meglio non dovrebbe, perché la “malattia”, è qualcosa che in una vita normale, in una vita vissuta nel fiore degli anni, è difficile da concepire.
Quindi dire “il diabete è un mio amico, il mio compagno di vita” o altre cose simili, permettetemi, è un affronto verso ciò che siamo.

Se i vostri figli urlano e dicono “odio il diabete!”, bene! Benissimo! Esternano il loro disagio, la loro rabbia, il loro mondo interno. Sono arrabbiati e ne hanno tutte le ragioni del mondo. Certo ad un genitore questo spezza il cuore e si sente impotente.

Cosa devo fare, cosa devo dire?!
Niente.

“Accogliere e contenere”, si dice in psicologia.
In termini genitoriali: abbraccio, ascolto interessato e: “hai ragione ad odiarlo, lo odio pure io!”.
Con il tempo l’odio assumerá altre vesti come l’indifferenza, che non vuol dire non curarsi. La pseudoaccettazione, ovvero consapevolezza che c’è ma non lo metto al primo posto, perché un diabetico non è solo diabete, “io non sono il mio diabete, io non sono numeri, peso, e cho”.

Barbara Porcu
Dottore in scienze dell’educazione 
Esperto i processi formativi

 

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