Era 1986 quando mi ammalai di diabete di tipo 1.
All’epoca c’erano due modi di trattare di questa malattia: si poteva tacere o non raccontare.
Dire che “tutto andava benissimo”, che si faceva una “vita normale”, che “bastava farsi l’insulina” per andare alla grande, apparteneva al secondo modo.
Forse perché ci si sentiva sollevati dal fatto che al diabete, a differenza del passato, ora si potesse sopravvivere o forse perché stavamo attraversando gli scoppiettanti anni ’80 e tutto doveva andare bene.
Dopo pochi anni mi accorsi che le cose per me non stavano affatto così.
La mia malattia era contraddittoria, complicata, incalcolabile, ingestibile. Cattiva.
Fu mia madre a esplicitarlo pronunciando la sua prima e ultima parolaccia, in occasione del mio ennesimo impazzimento glicemico: “Ma qui, COL CAZZO che fai una vita normale!”
Io e mia madre capimmo presto che non sarebbero stati il silenzio o le menzogne sulla malattia a salvarci.
Iniziai da subito a parlarne per ciò che era SU DI ME: una malattia bastarda. Lo feci nell’unico modo che mi era possibile, con sincerità.
Ero io la diversa, me lo diceva in tono scocciato il diabetologo e me lo dicevano gli altri diabetici, nei pochi momenti di incontro che si potevano avere in quegli anni.
Ma poi, pian piano, prima a quattr’occhi, a voce bassa, poi dietro la tastiera, in privato, fino a farlo pubblicamente, in tanti, in tantissimi mi rivelarono di ritrovarsi in ciò che scrivevo, di rispecchiarsi in quelle parole dure.
Tanto che mi convinsi a raccogliere le mie esperienze in due libri di materia incandescente.
Mi sembra strano che anche oggi che il contesto è completamente cambiato a volte risulti strano parlare con franchezza di questa malattia.
Non credo che capiti per altre patologie. Che nessuno si aspetti di sentir raccontare di quanto sia facile o ininfluente avere addosso un qualsiasi tipo di malattia cronica. Eppure, pare cosí.
Forse qualcuno confonde ancora il “raccontarsi” con il “compiangersi”.
Non mi sono mai pianta addosso, non ho mai usufruito di “privilegi legislativi” (quando ero bambina io non esistevano, probabilmente se si sono ottenuti per i ragazzi di oggi è perché qualcuno, come me, ha voluto svelare i risvolti difficili di questa malattia), nemmeno oggi usufruisco di “leggi speciali” e se, dopo piú di trent’anni di malattia usurante, non sono più riuscita a mantenere ritmi di lavoro estenuanti e ho scelto il part time, l’ho pagata con la mia pelle e con il mio portafoglio vuoto.
Dovessi raccontarlo per altri 30 anni (Dio me ne scampi, anzi, me ne scampi la ricerca!) non potrei farlo che così. Come dal giorno in cui sentii balenare nella stanza la prima e ultima parolaccia di mia madre.
