Riceviamo e pubblichiamo la richiesta di A.V., convivente more uxorio di una mamma di bimbo affetto da diabete mellito 1.
Buongiorno avvocato Pantanella, le chiedo se è possibile estendere ai compagni di genitori T3 di quanto ritenuto illegittimo dalla Corte Costituzionale in merito all. art. 33 c. 3 della L. 104/92 ovvero estensione della fruibilità dei permessi ai conviventi more uxorio.
Se sono compagno/a di un genitore T3, che non è lavoratore subordinato e quindi non fruisce direttamente dei permessi, posso usufruirne io?
Lascio link alla sentenza:
https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=213
A.V.
L’AVVOCATO RISPONDE
Gentile A.V.
La sentenza n. 213/2016 della Corte Costituzionale ha stabilito che i permessi retribuiti previsti dall’art. 33 comma 3 della Legge 104/92 non sono più esclusiva prerogativa dei genitori, dei parenti e degli affini, nonché del coniuge di una persona disabile riconosciuta in situazione di gravità, ma vengono estesi al convivente more uxorio.
Ora si tratta di stabilire se debba trattarsi solo del convivente more uxorio del partner disabile oppure possa essere estesa ad uno dei partners di una famiglia di fatto, in cui vi sia la presenza di un figlio disabile, figlio di uno solo dei due partners.
La Corte è intervenuta dichiarando incostituzionale solo “l’art. 33 comma 3, L.104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
Ai sensi dell’art 33, comma 3, Legge n. 104 del 5 febbraio 1992, possono infatti fruire di 3 giorni di permesso mensile retribuiti i lavoratori dipendenti, pubblici o privati, che assistono una persona con handicap in situazione di gravità purché:
- coniuge (della persona portatrice di handicap grave)
- parente ed affine del disabile, entro il secondo grado, genitori compresi (della persona portatrice di handicap grave)
- parente ed affine di terzo grado, solo qualora i genitori o il coniuge della persona portatrice di handicap grave abbiano compiuto i 65 anni oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Per la Corte Costituzionale, tali permessi vanno riconosciuti anche al convivente more uxorio e non solo al coniuge e ai parenti e affini.
La parte dispositiva della sentenza si riferisce solo al convivente more uxorio, il quale ha diritto come qualunque altro soggetto e particolarmente il coniuge, ad usufruire dei permessi retribuiti per assistere la persona disabile.
E dunque, la sentenza è destinata solo ad equiparare il convivente della persona disabile al coniuge.
Questo perché la Corte è stata investita limitatamente al quesito posto dal Tribunale rimettente, cioè il Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, il quale ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), per violazione degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione «nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità».
E sul punto ha espresso l’incostituzionalità della norma, in parte qua.
Ora, quando la dichiarazione di incostituzionalità colpisce una sola parte della disposizione legislativa impugnata, quella appunto non compatibile con la Costituzione, lascia sopravvivere il resto. Anzi la Corte, proprio per ridurre al massimo gli effetti di “vuoto” legislativo prodotti dalle sue pronunce di accoglimento, definisce attentamente la parte della legge destinata a cadere. Cosa che è avvenuta.
Non rientra nei suoi compiti né legiferare, né stabilire principi “estensibili”.
Funzione della Corte, come insegna la questione rimessale e la decisione presa in questo caso, è stabilire se la norma sia in tutto o in parte, in conflitto con una o più norme costituzionali.
Tuttavia, dalla sentenza possono già enuclearsi alcuni principi, che potrebbero, forse in futuro, far scaturire decisioni favorevoli ad estendere il beneficio (già concesso al coniuge ed ora al convivente more uxorio del disabile) anche al convivente di un genitore di figlio disabile.
Mi sembra siano degni di nota questi passaggi.
- La Corte, pur non volendo equiparare diritti ed obblighi tra coniugi e conventi more uxorio, ha inteso tutelare la salute del soggetto affetto da disabilità assicurandogli la vicinanza della persona con cui ha una “relazione affettiva”.
- Se il principio è la relazione affettiva tra persona con handicap e suo “familiare”, “coniuge” o “convivente more uxorio”, e se la norma, oggi parzialmente dichiarata incostituzionale è contenuta in una Legge-quadro che mira all’integrazione sociale della persona con handicap, l’interesse primario da tutelare è il diritto all’assistenza del disabile in particolare, e quello della salute in generale.
- Date queste premesse, la relazione affettiva non può essere compressa e circoscritta nel rapporto di parentela o di coniugio, ben potendosi manifestare nella famiglia di fatto, intendendosi questa come “comunità di vita”.
Scrive infatti la Corte che, in mancanza, il diritto, costituzionalmente presidiato, del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato normativo rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio.
Ed ancora, sul diritto alla salute, la Corte ritiene che debba essere garantito e tutelato al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico.
Pertanto, pur nel silenzio della Corte sul punto specifico, ma in aderenza con i principi dalla stessa enunciati nella sentenza, sarebbe davvero auspicabile, anche con un intervento legislativo ad hoc, che il convivente more uxorio possa usufruire dei permessi retribuiti per assistere una persona disabile, figlia del proprio partner (sempre a condizione di alternativitá con il partner e sempre che il beneficiario richiedente sia lavoratore dipendente pubblico o privato).
Cordiali saluti.
Avv. Umberto Pantanella
©Riproduzione riservata
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